Intervento "banale"?
Un intervento può essere "banale"? 25/10/2009
Digitate su Google "intervento banale" e rimarete sorpresi di come sia diffuso questo modo di definire alcuni interventi chirurgici.
Qualche volta il medico definisce "banale" un'operazione perché lui ha una solida esperienza, (ne ha già fatti tanti!) e l'intervento è semplice, soprattutto se confrontato con altri più complessi e più impegnativi che pure fa più volte nel corso della settimana; qualche volta lo dice pensando di tranquillizzare il paziente. Ancor più spesso sono i pazienti a sottovalutare un intervento chirurgico; la facilità poi con la quale si vedono personaggi dello spettacolo, e non solo, sottoporsi a "ritocchi" di chirurgia plastica fa pensare che ci si possa sottoporre a qualsiasi intervento senza alcun problema perché del tutto privo di rischi. Sembra che entrare in sala operatoria per sottoporsi a un intervento sia come entrare in officina per cambiare le candele del motore. Invece non è così: qualsiasi intervento, dal più semplice al più complesso, comporta un impegno e un'attenzione a mille particolari, prima dell'intervento, durante e dopo, per far sì che tutto si svolga regolarmente, che le possibili difficoltà vengano superate, che le varianti anatomiche vengano riconosciute in tempo, che i rischi vengano ridotti, e che le possibili complicazioni restino solo possibili. Per far sì, in poche parole, che tutte quelle condizioni così ben descritte nel consenso informato restino solo temibili possibilità solo ipotetiche.
Del resto lo stesso Chirurgo che si fosse lasciato sfuggire la parola "banale", nell'eseguire quello stesso intervento mette una attenzione e un impegno in netto contrasto con quella definizione così riduttiva della sua attività.
Chi vuole conoscere meglio quale sia lo stato d'animo di un Chirurgo Generale durante un intervento può leggere questo bellissimo articolo del dr. Lucio Piscitelli, specialista in Chirurgia Generale e in Chirurgia Vascolare
Dopo averlo letto, non credo che nessuno dirà più: "è solo un'appendicite"
Un "semplice" Intervento Chirurgico
Se
c’è una cosa che mi fa letteralmente andare in bestia è quando leggo da qualche
parte: “Un semplice intervento di… un’operazione di routine…”, definizioni
frequenti in cronache sulla cosiddetta malasanità o in articoli divulgativi su
riviste ad ampia diffusione.
A prescindere dalla evidente malafede di qualcuno, opinioni di questo genere
non possono che derivare dalla superficialità e dall’ignoranza di chi non sa e
non è in grado di immaginare neanche lontanamente in cosa consista
effettivamente un “semplice intervento chirurgico” con tutto ciò che gli “gira”
attorno. La convinzione di chi legge resta così che il Chirurgo sia un
cialtrone sciatto, distratto e irresponsabile che con colpevole trascuratezza
esegue male una cosa facile o che con grande leggerezza va dimenticando garze
nell’addome della gente. Pochi si fermano a considerare invece che mai come in
questo ambito gli interessi delle due parti contraenti (Paziente e Chirurgo)
sono coincidenti: a prescindere infatti da qualsiasi considerazione di tipo
etico, quale Chirurgo, in un momento in cui l’attenzione di Giornalisti,
Avvocati, Magistrati e Assicuratori è puntata in maniera severa su di lui,
affronterebbe in maniera “leggera” o irresponsabile un qualunque caso clinico,
ben conoscendo le conseguenze che un possibile errore scatenerebbe sul piano
morale, mediatico, amministrativo, giudiziario ed economico.
Il problema
è che talvolta anche gli stessi Medici alimentano convinzioni fuorvianti: i
meno esperti forse per presunzione, i più bravi evidentemente perché, adusi ad
affrontare quotidianamente problematiche molto più complesse, finiscono con il
descrivere come “semplici” procedure che razionalmente non lo sono.
Definire
facile un intervento chirurgico, qualunque esso sia, rappresenta a mio modo di
vedere una irresponsabile leggerezza che finisce col comportare in chi legge
sottovalutazione del pericolo e false aspettative sui risultati e sulla
sicurezza (che nessuno potrà mai ragionevolmente garantire in maniera totale)
ingenerando un grave senso di sfiducia nei confronti di chi viene chiamato a
offrirli. Di fatto un “non addetto ai lavori” difficilmente può da sé
avere contezza di quale sia la reale complessità (dalla diagnosi,
alla realizzazione, al controllo post-operatorio) di un atto Chirurgico anche,
come spesso si dice, “di routine”. La realtà è invece che la Medicina, la
Chirurgia in particolare, è arte difficile e non compiutamente sicura.
L’opera di
divulgazione e di denuncia che da taluni viene così caparbiamente perseguita
andrebbe quindi modulata da una più serena e obbiettiva informazione sul grado
di difficoltà e complessità delle procedure alle quali forse con eccessiva
tranquillità e fiducia ci si sottopone ritenendole semplici e prive di rischio.
Con questo intento ho provato quindi a “raccontare”, attenendomi strettamente alla realtà, le fasi di una “comune appendicectomia” (per altro neanche delle più complesse) con l’intento di offrire un assaggio del numero e della portata delle variabili e delle difficoltà tecniche, organizzative, comportamentali e, perché no, anche psicologiche che una problematica comunemente ritenuta “semplice” e “sicura” comporta per chi la affronta.
N.B. questo articolo è stato redatto in epoca “prelaparoscopica” e descrive una tecnica tradizionale; ma i concetti espressi e il racconto delle fasi sono largamente sovrapponibili.
Una ragazzina “cicciottella” di sedici anni viene condotta in Pronto Soccorso poiché lamenta da alcune ore un dolore in regione epigastrica (bocca dello stomaco) irradiato in fossa iliaca destra. La paziente si lamenta e collabora poco. La mamma che l’accompagna, piuttosto apprensiva, anziché assecondare le domande che vengono poste, bersaglia a sua volta il medico di turno con mille richieste e non gli dà in pratica il tempo di pensare. La ragazza riferisce anche una certa irregolarità nel ritmo delle mestruazioni e non riesce a ricordare la data in cui l’ultima le si è presentata; lamenta nausea con accenno al vomito, alvo inizialmente diarroico poi chiuso, qualche decimo di febbre; da un po’ di tempo è in cura per una colite che non passa. Viene chiesta la consulenza del Chirurgo. La visito con attenzione, rilevo una dolorabilità con accenno alla “difesa" dei piani muscolari (che solo una mano allenata può valutare e quantificare) in regione iliaca dx, segni di Blumberg e di Rosving, ricerco il segno dello Psoas. La ragazza è un po’ “cicciottella” e si visita male. Predispongo infine un prelievo per gli esami di laboratorio ed una ecografia pelvica.
Viene quindi affidata ad un bravo Infermiere: egli sa che in una ragazza
“cicciottella” le vene non sono sempre subito accessibili; la paziente
spaventata potrebbe avere una crisi vagale e svenire, soprattutto se con l’ago
si indugia troppo sulla parete della vena scatenando qualche riflesso. Durante
la manovra la presenza della madre è incombente. Vengono con cura rilevati i
dati anagrafici, mentre altri cinque pazienti, uno accompagnato dalla Polizia,
contemporaneamente vengono visitati e refertati al Pronto Soccorso; un telefono
squilla in continuazione. Le provette vengono catalogate e affidate ad un
collaboratore che le porterà al laboratorio di analisi già ingolfato da una
miriade di richieste che provengono dai vari reparti dopo essere passato a
ritirare dei referti in Radiologia, che occorrono urgentemente.
In Radiologia si predispone l’ecografia:
viene chiamato a casa il Medico reperibile. La ragazza ha la vescica vuota e
viene invitata a bere, ma la nausea glielo impedisce; d’altra parte in
previsione di un’anestesia generale è meglio che lo stomaco sia vuoto: i
liquidi potrebbero rigurgitare durante l’induzione della narcosi e inondare
pericolosamente le vie respiratorie con successiva broncopneumopatia acuta
(Sindrome di Mendelson) da distinguere poi dal sospetto eventuale di un’embolia
polmonare. Si applica allora una flebo, che tuttavia non può essere
somministrata troppo velocemente. L’ecografia dà quindi risultati non
completamente dirimenti: mostra del liquido libero nella parte bassa
dell’addome (siero, pus, sangue ?), ma gli annessi sembrerebbero regolari:
d’altra parte un follicolo ovarico o a anche una più voluminosa cisti, una
volta fissurati e quindi svuotati potrebbero non essere più rilevabili:
l’appendice raramente è identificabile con certezza. Qualche decimo di febbre è
compatibile con tutte le possibilità. Nei giorni precedenti c’è stata diarrea:
enterocolite o irritazione peritoneale? La Mamma incalza: “voglio sapere mia
figlia cos’ha”. Comincia ad esternare larvatamente il dubbio che l’assistenza
che riceve non sia adeguata. So che è opportuno mantenere la calma e mostrarmi
comunque disponibile e gentile, anche se sono preoccupato per l’emocromo di
quell’emorragico ricoverato in reparto che continua a scendere: il paziente (ma
soprattutto il familiare) ha sempre ragione !
Giungono le risposte dal laboratorio:
14.000 globuli bianchi; l’emoglobina è leggermente bassa: situazione
preesistente, piccolo sanguinamento in addome, familiarità per anemia
mediterranea…? “Cos’ha mia figlia ?” – insiste la madre.
I dati raccolti, un certo fiuto e decenni
di esperienza fanno propendere con ragionevole certezza per la diagnosi di
appendicite. Un’alea di dubbio tuttavia non è obiettivamente eludibile, ma
valuto che i familiari, già diffidenti, non sarebbero disposti ad accettarlo e
a comprenderne le ragioni: decido quindi che è preferibile tenermelo per me.
Nel frattempo è infatti sopraggiunto anche il Padre: “NOI vogliamo sapere
nostra figlia cos’ha!”. “Appendicite acuta; deve essere operata!
" dichiaro con apparente necessaria ed inevitabile determinazione.
ECG e Radiografia del torace: prima di esporla ai raggi X è opportuno escludere che possa essere incinta: “Dottore, ma per chi l’ha presa! Nostra figlia è una ragazza per bene”.
Viene compilata la cartella clinica. Ci si sofferma sulla conoscenza di allergie note: si, la rinite primaverile deve essere segnalata, anche se non le viene data importanza; qualche fratellino è allergico? Solo in un secondo momento e dopo che la sua attenzione è stata richiamata specificamente, la Mamma ricorda che la figlia da piccola ha manifestato qualche crisi convulsiva quando aveva la febbre alta, elemento importante per l’Anestesista.
Visita anestesiologica: fumi? Scusa, per caso fai uso di spinelli ? “Dottoressa, ma come si permette…Nostra figlia è una ragazza a posto !”. Viene applicato un catetere venoso: le vene continuano ad essere “difficili”, ma l’Anestesista è brava e incannula una vena dell’avambraccio senza esitazioni.
Consenso informato. I genitori vanno messi al corrente in maniera chiara e comprensibile delle finalità dell’intervento, delle possibilità terapeutiche alternative ma ritenute meno efficaci, delle possibili conseguenze e complicanze…. Un telefono squilla in continuazione… “Nientemeno! Ma è solo una appendicectomia! Si sa i Dottori si vogliono scaricare tutte le responsabilità…!”. Provo a spiegare che “consenso informato” non vuol dire questo, ma è inutile. Quello che più di ogni altra cosa richiama l’attenzione resta comunque la dicitura “cicatrice inestetica”: viene spiegato che in urgenza e per di più in un soggetto “cicciottello” la cicatrice non potrà essere piccolissima, che potrebbe suppurare… “Magari se andavamo in una clinica privata…” si lasciano sfuggire senza mezzi termini.
Depilazione. Via lo smalto dalle unghie, che impedirebbe il funzionamento del saturimetro. Rimozione oggetti metallici: possono interferire con l’elettrobisturi; si, anche il piercing. Lenti a contatto ? “Ciao Mamma, ciao Papà.” “ Figlia mia…Dottore, mi raccomando…”
Sala operatoria: si posiziona la paziente sul tavolo. Attenzione, il braccio è troppo esteso, potrebbe derivarne una neuropatia con danno anche permanente (denuncia sicura). Il polso va assicurato con la fascia senza che possa liberarsi accidentalmente, ma non deve neanche essere troppo costretto. La placca dell’elettrobisturi è posizionata a dovere? Se non aderisce perfettamente potrebbero derivarne ustioni anche gravi (denuncia possibile). Colleghiamo gli elettrodi per il monitoraggio… rosso, nero, giallo; il saturimetro; il bracciale dello sfigmomanometro…
ANESTESIA (parte da integrare)
Mentre i Chirurghi si “lavano” accuratamente spazzolando attentamente ogni anfratto di mani e avambracci con relativo risciacquo e “seconda passata”, la Ferrista con l’aiuto di un altro Infermiere prepara gli strumenti. Deve fare la massima attenzione a non contaminarli mentre li estrae dai contenitori, poi li dispone in ordine, secondo quanto ha imparato in molti anni di apprendimento e pratica: prima sul “tavolo madre”, poi sul “servente”. Conosce le abitudini di tutti i Chirurghi che operano in quella sala; sa già le misure dei guanti che indosseranno, il tipo delle suture che adopereranno (ne esistono decine e decine), il calibro dei fili, la grandezza e la tipologia degli aghi: tutto per ogni singolo tempo dell’operazione. Estrae le garze dai pacchi preconfezionati: anche se le confezioni sono da cinque, vanno ricontate: un errore in fabbrica farebbe pericolosamente perdere il conteggio di quelle impiegate e quelle “tornate”. Monta aspiratore ed elettrobisturi: ieri hanno effettuato il collaudo periodico: sicuramente non vi sono pericolose dispersioni; d’altra parte tutto il blocco operatorio è “a norma” e tutto viene periodicamente controllato (apparecchi, allarmi, circuiti di sicurezza, erogazione dei gas medicali, sterilità ambientale, lampade scialitiche, gruppo di continuità elettrica, climatizzazione e tante, ma tante altre cose…): il Caposala e il Primario ne verificano i risultati sotto la loro responsabilità.
I Chirurghi fanno il loro
ingresso. Indossano i camici sterili facendo attenzione a non sfiorare
nulla per non contaminarsi, poi i guanti secondo una procedura particolare che
fa in modo che la loro superficie esterna non venga mai a contatto con le mani
nude anche se “lavate” (ma come si fa ?). Osservo il Collega che mi aiuterà; è
qui da poco e non ho mai operato con lui; io non conosco le sue capacità, lui
le mie abitudini.
“Possiamo cominciare ?” – L’Anestesista annuisce mentre il monitor e gli
apparecchi per l’anestesia continuano a fornire una miriade di cifre e grafici
(ECG, frequenza, saturazione, pressione, ecc.) emettendo di tanto in tanto
avvertimenti sonori di diversa tonalità e di cui l’orecchio allenato sa
riconoscere il significato e la rilevanza.
L’addome della paziente viene disinfettato: occorrono due passate di Iodio Povidone cambiando il tampone, procedendo dal centro alla periferia, esercitando la giusta pressione… meglio allargarsi, non si può mai sapere… Attenzione all’ombelico: anche nelle persone apparentemente più pulite è spesso ricettacolo di “conglomerati” fonte di possibile contaminazione. I teli vengono posizionati con cura; si collegano bisturi elettrico e aspiratore. Le lampade vengono orientate sul campo operatorio e ne viene regolato il “fuoco”.
“Bisturi lama 23 !”: finalmente viene incisa la cute: il taglio può essere di diversi tipi e in questo caso, non aspettandomi una situazione particolarmente impegnativa, ho deciso per una accesso secondo Mc Burney, che risulterà meno comodo per me, ma più estetico e “solido” per la paziente: deve cadere in un punto ben preciso mentre l’Assistente tiene tesa e stirata la zona: non troppo grande (“Dottore mi raccomando…), non troppo piccolo (ragazza “cicciottella”: lo strato da attraversare ostacola la “discesa” in profondità; tutto sommato poi una occhiata agli annessi può essere necessaria… Quel liquido libero…?). Un taglio del sottocute netto, per evitare la formazione di anfrattuosità che potrebbero poi essere preda di infezione (la ragazza è “cicciottella”); ora vanno riconosciuti e coagulati piccoli vasi che sanguinano: attenzione a non ustionare la cute ! “Il bisturi elettrico è troppo alto, per favore abbassate un po’ il coagulo: a 70 va bene, sopprimete la funzione spray, grazie”. Viene incisa la fascia del muscolo grande obliquo e vengono aperti i muscoli larghi con l’aiuto dei divaricatori sapientemente manovrati dall’Aiuto mentre gli faccio strada con pinza e forbici: deve fare attenzione a non provocare lacerazioni e sanguinamenti (“OK, si sa muovere !”). Ora va preparato il peritoneo che è velamentoso, scollandolo un po’ e pinzettandolo delicatamente, facendo attenzione a non “prendere” anche qualche viscere sottostante necessariamente spinto contro di esso soprattutto se l’anestesia non è ancora profonda: una visione “per trasparenza” non sempre elimina il dubbio, per cui occorre procedere al taglio prudentemente, per non provocare lesioni, con un colpetto delicato della punta delle forbici. Finalmente un po’ di aria penetra in peritoneo e i visceri si allontanano dalla parete. Ora, attraverso un piccolo accesso, siamo al cospetto della cavità addominale: meno male, quel liquido segnalato dall’ecografia non era sangue, ma siero reattivo. Solo la visione diretta della appendice tuttavia dirimerà definitivamente il dubbio; andiamo a cercarla tra le anse intestinali che mi vengono davanti: sembra incredibile ma a volte si sa nascondere molto bene. Devo cercarla seguendo precisi punti di répere: tenie del colon, inserzione dell’ultima ansa… Finalmente trovo la base di impianto sul cieco. P**** miseria è “retrocecale” e con il corpo adeso in profondità; il cieco è fisso e non consente di esteriorizzarla facilmente: so che non posso fare eccessiva trazione sui visceri, rischierei di disinserirne il meso (fragile tessuto attraverso il quale i vasi dal retroperitoneo raggiungono le anse intestinali) provocando una emorragia le cui conseguenze sono imprevedibili. Vi è un’aderenza che non riesco a vedere. Quasi quasi allargo il taglio…, meglio di no (“Dottore mi raccomando…”). Sarà meglio mobilizzare un po’ il cieco: incido il peritoneo della “riflessione parietocolica”: devo scegliere il punto giusto; è questione di millimetri: non troppo lontano dal viscere (finirei in un piano errato), non troppo vicino al cieco (potrei lesionarlo con la conseguenza di dover effettuare una emicolectomia: denuncia sicura !). Intanto le anse del tenue continuano a venirmi davanti anche perché il rilasciamento muscolare non è ottimale: l’anestesista è brava, ma probabilmente non vuole eccedere con i miorilassanti per assicurare alla paziente un pronto recupero del respiro spontaneo al risveglio. Non insisto: so per certo che se potesse farebbe di meglio (lavoriamo insieme da anni), ma evidentemente ha qualche piccolo problema (sicuramente nulla di grave: forse quel rush cutaneo all’induzione) che non mi esterna per non allarmarmi, ma la vedo armeggiare con tubi e valvole; chiede del Cortisone. Devo applicare delle legature in profondità per staccare l’appendice dalle aderenze: occorre delicatezza ma energia: se tiro troppo strappo qualche aderenza e comincia a venire sangue da qualche punto in profondità che non posso vedere; se non stringo i nodi a dovere la legatura può scivolare: ugualmente sangue. Stessa cosa per il mesenteriolo (fragile struttura grassosa attraversata dall’arteria appendicolare): è un po’ infarcito (paziente “cicciottella”) e infiammato; se si strappa si ritira in profondità e sono costretto ad “allargare” rapidamente; intanto l’emorragia infarcirebbe il grasso e renderebbe difficoltosissima la ricerca del vaso in una zona dove decorrono altre strutture (uretere, vasi ovarici…) che potrebbero essere accidentalmente lesionate nelle manovre di emostasi (denuncia sicura); fra l’altro so che anche quando sembra “sistemata” a dovere l’arteria appendicolare può dare qualche problema: emorragia, ematoma, shock, reintervento o… peggio (denuncia inevitabile); quindi in questa fase è necessaria la massima attenzione: l’appendice viene attratta con la giusta tensione nella giusta posizione per distenderne il meso: “Dammi del Vicryl due zeri; qui quello più sottile potrebbe tagliare”. Poi uno, due…quattro nodi, di cui il terzo invertito, sempre senza tirare troppo. “OK, mettiamo anche un punto di sicurezza” (come mi hanno insegnato i miei predecessori): devo posizionare, sempre sul fragile mesenteriolo, un Klemmer che l’Aiuto dovrà poi manovrare con delicatezza e precisione (ma ho già visto che il Collega “si sa muovere”). Ora posso sezionare rasente l’appendice. “Un punto due zeri con ago cilindrico !”; passo il punto, stacco l’ago e annodo la “legatura transfissa”: di nuovo i quattro nodi, il terzo invertito, mentre l’Aiuto in perfetta coordinazione sfila delicatamente il Klemmer, senza “strappare”. Prima di tagliare il filo e abbandonarlo definitivamente dò un’ultima occhiata al mesenteriolo e alla sua inserzione (magari ho trazionato troppo…?), ma è tutto OK. Finalmente l’appendice è libera. Il suo aspetto conferma la diagnosi, però mi aspettavo “di più”… .
Intanto dal Reparto fanno sapere che i parenti dell’emorragico insistono per parlare con un Chirurgo: hanno ragione, ma devono aspettare. Dovrò sorbirmi le loro proteste per l’attesa, magari anche giuste, ma ovviamente immeritate. Speriamo non siano persone aggressive!
Sutura per la “borsa di tabacco” sul cieco intorno all’appendice: Wicryl tre zeri ago 16 mm a semicerchio cilindrico. I punti vanno passati a distanza regolare, rigorosamente nell’esile piano sieromuscolare: se vado troppo dentro attraverso la parete e inquino la sutura, se resto troppo in superficie la sutura non tiene; attenzione a non ledere i vasellini che si intravedono per trasparenza; si formerebbe un ematoma sulla parete del cieco che potrebbe suppurare (ascesso) oltre che rappresentare un punto debole nella sutura del viscere. L’appendice viene finalmente sezionata dopo averla “clampata” con un Koker: non troppo vicino alla legatura della base appendicolare che potrebbe scivolare e aprirsi (fistola cecale: denuncia probabile), non troppo lontano per non lasciare un moncone troppo lungo (possibile ascesso: denuncia eventuale); l’Aiuto afferra il cieco con una pinza delicata facendo attenzione a non far urtare il monconcino infetto dell’appendice ai tessuti circostanti (queste benedette anse continuano a venirmi davanti). “Un batuffolino con un po’ di Iodio Povidone, per piacere”: ora “affonda” il moncone con una pinza sottile mentre con precisa coordinazione io stringo “la borsa” e lui rilascia il cieco: “OK, va bene così.”. Per abitudine o per scaramanzia ancora una volta osservo alla lettera gli insegnamenti di chi mi ha preceduto e applico un punto di sicurezza “a zeta”: se la borsa “molla”, la conseguenza potrebbe essere ancora una fistola cecale (lunghi fastidi per la paziente e denuncia probabile).
Non sono contento. Meglio esplorare per quanto possibile gli altri visceri: cerco l’ultima ansa di tenue e tiro fuori un tratto di ileo sufficiente a ricercare un eventuale diverticolo di Meckel che non c’è; vado alla ricerca degli annessi: “mettiamo il tavolo in Trendelenburg (testa in giù per allontanare i visceri); la luce meglio, per piacere…”. Esorto l’Aiuto a divaricare con più energia, ma le anse continuano ad ostacolare le manovre. Ecco, intravedo l’ovaio di destra: è normale; quello di sinistra è lontano, non è visibile: infilo un dito, al tatto cerco l’utero, seguo la tuba: ecco l’altro ovaio, lo palpo, lo rigiro, mi sembra anch’esso normale. “Rimettiamo il tavolo in piano”. L’Aiuto riposiziona i divaricatori, poi osserva: “C’è un po’ di sangue”. No, probabilmente, abbassando la paziente un po’ di siero è risalito dal Douglas (scavo rettouterino) e si è tinto sul focolaio operatorio, ma bisogna verificare: “Garza, asciughiamo bene; divarica di più; cerchiamo le legature e controlliamo tutto con attenzione. Meglio perdere un minuto in più. OK è a posto, possiamo chiudere”. La Strumentista chiede “Tubo di drenaggio ?”. Ci penso un attimo, poi “No, grazie, non è necessario”. Ricerco i margini del peritoneo, che intanto si è retratto sotto i muscoli, e li reperto con quattro Koker: sutura continua in Vicryl tre zeri, ago cilindrico: attenzione a non “prendere” qualche ansa che continua a volersi infilare nella piccola breccia. “Le garze ci sono tutte?”. Poi vengono accostati i muscoli con qualche punto “a X”. Infine la fascia viene repertata e suturata con una “continua”: “Vicryl zero con ago triangolare da 20 mm…Cominciate a far preparare il prossimo paziente…”. Qualche punto per il sottocute (la ragazza è sempre “cicciottella”) e infine la cute. L’Aiuto vorrebbe fare una “endermica”: è più estetica, ma se la ferita suppura si riapre tutta; “Lascia perdere, metti dei punticini di Nylon quattro zeri accostando con cura i margini… vado in reparto a vedere quell’emorragico.”
Mi svesto. Intanto l’Anestesista avvia le manovre per il risveglio…
Esco dal blocco operatorio e, mentre lascio richiudere la porta alle mie spalle, mi si fanno incontro i genitori con qualche altro familiare intanto sopraggiunto: “Dottore, tutto a posto ?” – “Si, tutto a posto” – “Quanti punti ha avuto?” – Non ho voglia di rispondere, accenno un sorriso e loro bofonchiano qualche cosa. Mentre vado verso l’ascensore, il padre parla con qualcuno al cellulare: “Si, si, tutto a posto. Era "solo" un’appendicite…”
Contenuto originale redatto dal Dr. Lucio Piscitelli